Parigi – Bandiera del Galles fra le mani, il volto stanco e l’espressione commossa sono i tre segni distintivi di Geraint Thomas nel giorno del suo trionfo sugli Champs-Elysèes. Il trentaduenne britannico, già olimpionico nell’inseguimento a squadre (in squadra con
Se si esclude la vittoria di Vincenzo Nibali nel 2014, é dal 2012 che il Tour de France segue sempre lo stesso spartito tattico: corsa bloccata perchè controllata dai ritmi pazzeschi imposti dal Team Sky, abile a far prendere subito un grande vantaggio al proprio capitano e ancor più bravo a spegnere sul nascere ogni tentativo di rimonta, anche grazie ad un dominio incontrastato nelle prove a cronometro. É successo nel 2012 con Wiggins, nel 2013, 2015, 2016 e 2017 con Froome e quest’anno con Thomas. Questo dominio ha due ragioni principali: la supremazia economica della Sky (unica vera multinazionale del ciclismo moderno) e il percorso del Tour, ricco di salite con pendenze medie e regolari (che favoriscono da sempre i cronomen) e povero di tappe dove i corridori più coraggiosi possono davvero far saltare il banco.
In questa edizione della
Il vero grande assente di questo Tour, purtroppo, é stata l’organizzazione, che nella dodicesima tappa, quella dell’Alpe d’Huez, non é riuscita a mantenere i livelli di sicurezza minimi ed é stata messa in crisi da un tifo malsano, che ha infastidito i corridori e messo fuori gioco, sia pure involontariamente, Vincenzo Nibali. A differenza del Giro, inoltre, sono stati troppi gli arrivi in discesa (dove é molto più difficile fare la differenza) ed é anche mancata la volontà di esplorare nuovi arrivi in salita (la proposta italiana di far arrivare il Tour sul Colle del Nivolet, in Piemonte, é caduta nel vuoto), spesso con pendenze importanti. Il Tour, dunque, resta il terzo evento sportivo del mondo, ma se vuole rimanere tale deve essere capace di reinventarsi, coniugando il ciclismo moderno con una spruzzata di ritorno alle origini. Luigi M. D’Auria